Di fake followers – o stream, o views – nel mondo dell’intrattenimento musicale si è parlato molto, anche su queste pagine: in epoca social le dimensioni (di un seguito) paiono contare ancora molto, forse addirittura di più dell’effettiva qualità della proposta musicale. Fabrizio Galassi – giornalista, docente di Sound Design allo IED di Roma e consulente nuovi media in ambito artistico – è andato oltre, simulando una vera e propria costruzione di un seguito assolutamente virtuale che una band o un artista potrebbero attuare con un budget inferiore a mille euro. La domanda, legittima, è: ma ne vale davvero la pena? La risposta, come potrete facilmente desumere dalle risposte che ci ha dato nell’intervista che segue, è semplice: no. Ecco perché…
Quanto costa crearsi un seguito sulle piattaforme musicali online?
Faccio una piccola premessa: il capitalismo musicale è una brutta bestia, è l’apparenza dei numeri dove si suppone che il migliore non sia il più preparato, ma il più cliccato: “Guarda, sono più popolare di te!”. E questo porta a comportamenti sconnessi al limite del ridicolo, dove gli artisti non pensano più a scrivere il miglior brano possibile, ma ad avere più numeri possibili.
Evitate l’acquisizione di like o plays perché il capitalismo musicale non funziona più, il dato più interessante non è la quantità delle connessioni, ma la qualità. I fake stream o like sono in realtà degli utenti-zombie pagati per fare numero senza nessun interesse a partecipare.
Può essere vagamente efficace su YouTube per dare una piccola spinta iniziale al proprio video, ma già su Spotify è molto più rischioso.
Prendiamo, ad esempio, Streamify, il servizio più conosciuto: con soli 255 euro è possibile portare a casa ben 200.000 ascolti “reali” su Spotify, cioè non prodotti da bot, quindi ogni click si trasforma anche in royalty incassata.
Possibile che le piattaforme non abbiano elaborato anticorpi per arginare questo tipo di pratiche?
In realtà, da qualche mese Spotify ha alzato i controlli e il livello severità nei confronti di chi tenti soluzioni del genere: se l’algoritmo nota una crescita negli ascolti non organica, non solo toglie il brano dal servizio, ma può predisporre un ban a tempo indeterminato per l’artista che l’ha caricato.
Possono provvedimenti del genere colpire band o artisti innocenti, cioè protagonisti di impennate negli ascolti effettive ma individuate dagli algoritmi come “sospette”?
Sì, alcune vicende rasentano l’assurdo. La band Smokey And Mirror, per esempio, è stata giudicata “colpevole” di avere un profilo su Spotify con soli 30 fan, ma in grado di totalizzare ben 79.000 ascolti grazie al battage della propria newsletter e della propria pagina Facebook. L’algoritmo ha “pensato” che stesse utilizzando un servizio come Streamify, e quindi ha tolto dalla propria piattaforma non solo l’album, ma tutta la discografia del gruppo.
Contromisure del genere vengono adottate da tutti gli altri servizi streaming, compresi quelli non a pagamento?
YouTube, su questo versante, è un po’ più permissivo, e pare non si sia ancora dotato di un muro anti-acquisto-views. Inoltre, il prezzo per acquistare stream falsi è più alto di Spotify. Per esempio, un buon numero di passaggi per un video intestato a un artista affermato o in rapida emersione si attesta intorno alle 250.000 views, e Devumi le vende per circa 1.000 euro.
E’ possibile ottenere risultati analoghi anche con budget inferiori?
Volendo volare più bassi, ci si potrebbe accontentare di avere un fanta-pubblico di 100.000 persone al costo di 425 euro, al quale teoricamente si potrebbe affiancare una piccola campagna su Twitter e arrivare a 50.000 utenti, per un totale complessivo di 490 Euro. In questo caso Devumi consiglia di disattivare la monetizzazione del video dove atterreranno le 100.000 views, proprio per evitare che YouTube applichi sanzioni severe.
Venendo, invece, alle piattaforme social…
Su Instagram il meccanismo è lo stesso: volendo vedere un account popolato da 2.500 follower virtuali creati da un’automazione informatica – che, quindi, non metteranno mai un like o un commento a un qualsiasi post – è sufficiente versare 25 euro a Buzzoid. Facebook, d’altro canto, ha già sviluppato tutti i meccanismi necessari per stroncare queste pratiche, che combatte in modo molto severo.
Riassumendo, quindi: quando costa creare da un giorno all’altro un seguito non reale sul Web?
Circa 800 euro. 200.000 plays su Spotify possono essere ottenuti con 255 euro su Streamify. Per 100.000 views su YouTube bastano 425 euro per una campagna su Devumi, alle quali possono essere aggiunte 30.000 views su Twitter con soli 65 euro per i servizi offerti sempre da Devumi. Infine per “creare” 2.500 follower su Instagram bastano 25 euro per i servizi di Buzzoid.
Che status si ottiene, sul Web, grazie a una dote di views, stream e follower del genere?
Con questi numeri si potrebbe parlare di artista in emersione, ma dobbiamo stare molto attenti a cosa ci accade intorno. Molti artisti “creati” dalla TV stanno faticando a far andare le persone ai loro concerti, perché il pubblico televisivo difficilmente lascia il divano e il telecomando. Quello non è il vostro pubblico, l’utente generalista non è il vostro pubblico. Meglio concentrarsi sulla composizione e investire in un bel video live per presentarsi ai locali; oppure pensare a una strategia sugli ADV di Facebook e Instagram.
Società come Streamify o Devumi operano nella completa legalità o la loro attività è oggetto di dibattito, da parte dei legislatori europei e americani?
Nessuna illegalità. Ci sono alcune pratiche che possono andare contro i Termini di Utilizzo di YouTube, come ad esempio utilizzare account automatici (BOT) per incrementare le views, ma sono tecniche sconsigliate, non illegali. Anche perché i servizi più costosi sono quelli che promettono di avvalersi di utenti veri, di vastissime community che vengono pagate per ascoltare il vostro brano, dicono loro…
Chi c’è dietro società che offrono servizi come questi? Perché l’identificazione – sia per vie tradizionali, sia tramite Whois o altri strumenti – di entità commerciali del genere è così difficile, nonostante l’attività dichiarata nel vendere i propri servizi sia quella – legittima – di “social media marketing”?
Non è semplice capire se queste società utilizzano veri utenti, successivamente ricompensati, oppure semplici programmi di automazione di account – come gli stessi del secondary ticketing per fare un esempio. Ma chi fa questi acquisti, spesso, è interessato solo al numero, non gli interessa come esso sia stato generato.
Ha ancora senso parlare di “social proof”, dopo quanto detto finora?
Direi ancora di più. Ho lavorato con artisti che avevano fatto la spesa di utenti, ed è stato difficilissimo riattivare gli account veri e riformare un nuovo pubblico; quindi il primo punto negativo è l’inquinamento.
Poi c’è l’interazione. Se ho un Instagram con 7000 fan ma nei miei post ci sono solo 4/5 like vuol dire che c’è qualcosa che non torna, e etichette o locali stanno alla larga da questi “musicisti”.
L’unico caso in cui può essere concesso l’acquisto di interazione è per un video: se dovete inviare la vostra clip a riviste o altri addetti ai lavori, presentarsi con solo 100 views può essere sconveniente.