Sono arrivati i dati italiani del mercato discografico 2016 con una grande sorpresa, ma non sono i numeri a sorprenderci, bensì la dichiarazione dell’Amministratore Delegato della FIMI Enzo Mazza, che attacca: “La forte differenza tra i ricavi da video streaming e audio, lascia ancora emergere il tema del value gap con piattaforme come YouTube, sulla quale vengono realizzati miliardi di stream ma che genera pochissimi centesimi per gli aventi diritto a causa di un baco normativo comunitario”, e cosa accadrebbe se l’Europa, [modalità sarcasmo] così tanto unita ed efficace [/modalità sarcasmo], sbarrasse questo appiglio? “Se attribuisse una connotazione giuridica univoca per piattaforme come Spotify, Deezer o Youtube i ricavi generati dal video sharing potrebbero anche raddoppiare”.
Dall’altra parte dell’oceano gli fa eco Cary Shermand della RIAA: “Non ha assolutamente senso che l’autore di un brano guadagni solo un dollaro ogni 1.000 views su YouTube, quando altri servizi come Apple Music o Spotify pagano fino a 7 Dollari per gli stessi plays”.
Questa presa di posizione da parte dell’industria discografica nei confronti di YouTube arriva dopo l’ennesima crescita dello streaming, un trend che dal 2012 in Italia è arrivato a +1.315% (e non è un errore), passando dai 2.5 milioni di cinque anni fa agli oltre 35 del 2016.
E a tutti quelli che attendono con ansia i numeri del vinile, eccoli: nell’ultimo anno l’LP ha totalizzato 9 milioni di Euro, tre in più rispetto al 2015 e con un trend totale del 52% nel quinquennio precedente.
Ma ritorniamo alla polemica.
Da uno studio sul campo abbiamo notato che il revenue sharing di YouTube è effettivamente cresciuto superando il dollaro/1.000 views citato da Shermand, ma è ancora molto lontano dal colmare il value gap, che secondo Christophe Muller, Head of YouTube International Music Partnerships, è un paradosso: “Dicono che noi sottopaghiamo i musicisti rispetto a servizi come Spotify. Ma è solo una confusione tra due servizi differenti: un abbonamento che costa 10 Dollari all’anno, contro uno stream video supportato da pubblicità. E’ come paragonare quanto guadagna un tassista solo con le tariffe e quanto guadagnerebbe mostrando pubblicità all’interno della sua macchina”.
La dichiarazione di Muller/YouTube è di un anno fa, ma lascia ben intendere quali siano le preoccupazioni di un padrone della rete (per dirla alla Rampini) rispetto ai centesimi che dovrebbe lasciare nel cappello dei musicisti: nessuna.
La SIAE tenta di colmare questo gap riconoscendo un ulteriore ritorno economico al detentore dei diritti: si tratta di 2 Euro ogni 10.000 views, che diventano 4 se a guardare il video sono stati 20.000, 6 Euro per 30.000 e così via (si tratta di 20 centesimi ogni 1.000 views, se ve lo stavate chiedendo).
SIAE ci prova, ma per arrivare a 7 Euro ogni 1.000 views serve ancora molta strada, ma soprattutto necessitiamo di un governo centrale, quello europeo, che sia in grado di lavorare su più fronti, sul rispetto delle tasse, sull’equo pagamento, non sullo scambio di favori: “Io faccio lo spot per il SI al referendum, e tu fai in modo che le mie aziende non paghino troppe tasse”, value gap incluso.
Adesso ritorniamo ai dati, chiudendo con il confronto 2016 – 2015.
Dopo il 21% di crescita del ’15, l’anno appena passato va a consolidare il risultato con un +0.4%, che in milioni di Euro fa 149 = il valore del mercato discografico.
In Italia si tende ad ascoltare la nostra musica e in modo ‘antico’: nella top 20 del 2016 ben 17 album sono italiani, e sottolineo album, tanto che il 54% del mercato è ancora dominato dal fisico.
Se gli artisti, le etichette e le società smettessero di bisticciare per le briciole e si unissero in una lotta comune, l’obiettivo sarebbero i milioni, sarebbe una crescita economica, morale e culturale che farebbe invidia alla Svezia.
Fabrizio Galassi