Una cosa universalmente riconosciuta è che i Depeche Mode hanno un Signor frontman, Dave Gahan. Cosa già meno riconosciuta, specialmente da chi non è andato mai oltre Enjoy The Silence per conoscerli, è che se Dave Gahan è il sensualissimo braccio, è Martin Gore la mente.
È Gore ad aver scritto la stragrande maggioranza dei pezzi, e questo non si applica alle sole hit (pensate a una dei Depeche, l’ha scritta lui) ma alla miriade di perle in cui puoi imbatterti soltanto se ti metti lì e ti ascolti uno per uno i 14 album dal 1981 a oggi. Se poi includiamo i pezzi in cui da chitarrista Gore si fà voce principale e frontman, allora la posizione di Gahan si ridimensiona parecchio, tornando quantomeno sullo stesso gradino dei suoi compagni. Con la scusa dei 57 anni appena compiuti (auguri!).
Si deve ad Alan Wilder, ormai ex membro da più di vent’anni, il merito di aver trovato nell’oscurità la strada maestra dei DM, una teatralità dark con rimandi gotici che poi negli anni Martin Gore ha perfezionato fino a renderla 1) riconoscibile fra mille imitazioni, 2) eterna, completamente immune alla mutevole indole dell’industria pop contemporanea. Una celebrazione del buio, del nero, del cielo plumbeo dell’Essex: in breve, una Black Celebration. Se poi questa teatralità si traduce in un citazionismo operistico traslato nell’era dei sintetizzatori, ancora meglio. Alla voce soave del Gore servono giusto due controcanti di voci simulate al synth per fare di It Doesn’t Matter Two uno dei pezzi più influenti dell’album più (forse) più influente di tutti gli anni Ottanta.
Per approfondire https://www.rollingstone.it/musica/news-musica/i-migliori-pezzi-dei-depeche-che-ha-cantato-martin-gore/421907/#things