Ha fatto scalpore il coinvolgimento del frontman degli U2 nell’inchiesta Paradise Papers, scaturita dal leak di oltre 13 milioni di documenti riservati ottenuti dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists che hanno fatto luce sulle attività finanziarie nei paradisi fiscali di artisti, sportivi, politici, imprenditori e personaggi di primo piano sul panorama mondiale.
Il ruolo di Bono come socio di minoranza passivo di una società offshore proprietaria di un centro commerciale in Lituania non ha nulla a che vedere, tuttavia, con l’ecosistema industriale-economico musicale: l’investimento è stato fatto dal cantante a titolo personale, senza alcuna connessione con la propria attività professionale. Di giri d’affari decisamente più grandi e strutturati parlano invece le carte diffuse dello studio Appleby, società fondata alle Bermude e specializzata nella creazione e gestione di società offshore, che tra i suoi clienti aveva anche Colin Diamond, amministratore finanziario dello scomparso frontman degli INXS Michael Hutchence.
Stando a uno scambio di mail finito tra i Paradise Papers tra il manager e un funzionario della Appleby, Diamond nel 2015 avrebbe legalmente costituito nelle Mauritius una società – la Helipad Plain – per sfruttare commercialmente “registrazioni inedite audio, video, immagini e qualsiasi materiale riferibile a Michael Hutchence” in vista del ventennale della scomparsa dell’artista, che ricorrerà il prossimo 22 novembre e che sarà celebrata dall’uscita del documentario “Michael Hutchence: The Last Rockstar”. I legali della Appleby etichettarono il cliente come “ad alto rischio”, e con cognizione di causa: la famiglia di Hutchence (il padre Kel, la madre Patricia e la sorella Tina) e la figlia avuta dal cantante con Paula Yates, Heavenly Hiraani Tiger Lily, stanno dando battaglia in tribunale da anni a Diamond. I familiari della star erano stati indicati nel testamento del congiunto come destinatari del suo patrimonio – che, secondo il volere di Hutchence, sarebbe andato per metà alla figlia Tiger Lily e per l’altra metà, divisa in tre parti uguali, ai genitori e alla sorella: nel 2005, tuttavia, si venne a sapere che gli asset del frontman erano già stati incastonati in un labirinto di società offshore creata ad arte da Diamond e da altri ex consulenti finanziari del cantante.
Possibile che il manager abbia potuto fare una cosa del genere, privando i naturali eredi dei diritti avanzati dall’artista sulle sue composizioni? Secondo Diamond Hutchence, quattro anni prima della sua scomparsa, avrebbe ceduto a una sua società, la Chardonnay, il controllo dei suoi assett, per proteggerli da “questioni familiari”: dai Paradise Papers, tuttavia, è emerso che avrebbe comunque raggiunto un accordo per garantire alla figlia la propria parte di eredità. Vero o falso? Al momento non ci sono certezze: il Guardian ha interrogato al proposito Bob Geldof, nominato tutore legale della ragazza fino al ventunesimo anno d’età, senza però ricevere risposta. Comunque vada, il caso continuerà a fare parlare: nel documentario di prossima uscita “Michael Hutchence: The Last Rockstar” è incluso del materiale controllato dalla Chardonnay di Diamond. Mentre il manager degli INXS Chris Murphy ha bollato l’utilizzo degli spezzoni come “non autorizzato” – il gruppo si vide citare in giudizione nel 2010 da Diamond, che reclamava un sesto dei diritti di sfruttamente dell’immagine di Hutchence e dei diritti di trasmissione radiofonica dei brani registrati dalla band – Mark Llewellyn, il produttore del lungometraggio, ha dichiarato di aver avuto accesso all’archivio a titolo completamente gratuito, proprio in virtù dell’amicizia che legava lo stesso Diamond a Hutchence.
Altra storia esemplare portata alla luce dai Paradise Papers – e sempre emerso nei file relativi allo studio Appleby – è quello della FS Media Holding Company Limited, società registrata nel 2007 presso l’isola di Jersey, tra Francia e Gran Bretagna, e controllata dalla società irlandese First State Media Group Limited. Come riferisce l’Espresso, la società ha fatto incetta di edizioni di grandi autori ormai considerati classici, tra i quali il re del reggae Bob Marley, la leggenda del country americano John Denver, il grande del jazz Duke Ellington oltre che alla star Sheryl Crow, dalla quale, nel 2009, la società ha acquistato i diritti di 153 canzoni.
L’impressionante catalogo, nonostante i passaggi di mano della First State Media Group Limited – ceduta prima a Chrysalis, a sua volta inglobata da Bertelsmann, pur mantenendo la propria delle opere e dei relativi diritti – continua a far maturare profitti: tra il gennaio 2009 e il luglio del 2012 il solo catalogo di John Denver fa incassare alla FS Media Holding Company Limited 865mila dollari. Nello stesso periodo, le royalties sul repertorio della Crow fanno iscrivere nel bilancio della società, alla voce entrate, altri 493mila dollari. Sembra una marcia trionfale, eppure qualcosa va storto: nel 2014 il fondo inizia a vacillare e a indebitarsi, perdendo valore. Ne approfitta un’altra società editoriale, la Reservoir Media Management, che rileva l’intero pacchetto per la bellezza di 38 milioni di dollari. Certa di tornare a farlo fruttare come ai tempi d’oro, forte di un quartier generale a New York ma di una sede legale in Delaware, sorta di paradiso fiscale “light” all’interno dei confini USA.
Perché sfruttare i paradisi fiscali nella gestione di cataloghi? Semplice: perché nell’ecosistema instriala-musicale odierno, il diritto d’autore rappresenta una sorta di bene rifugio. Le mode passano: solo negli ultimi vent’anni abbiamo avuto modo di assistere al declino del CD, al boom dell’mp3 subito smorzato – e in un secondo momento annichilito – dall’esplosione dello streaming, che oggi convive – pur occupando la fetta di mercato più grande – con i vecchi formati fisici, tra i quali un vinile di nicchia eppure particolarmente vivace. Il diritto d’autore, però, sta sopra: ogni volta che un brano viene trasmesso alla radio o in TV, suonato dal vivo o utilizzato nella colonna sonora di un film o in uno spot televisivo rende. E questa rendita di posizione è meglio incassarla in un paese che tassi il meno possibile guadagni del genere. Il potenziale enorme del mercato editoriale, del resto, non lo racconta solo la storia – con casi di studio come quello relativo al catalogo dei Beatles, passato negli anni nelle mani della società dei Fab Four, la Northern Songs, poi in quelle della ATV Music, poi ancora in quelle di Michael Jackson, per poi finire ancora alla Sony non senza contenziosi legali ancora in corso – ma lo dicono i numeri.